Già con la bella esperienza di aver scritto un libro di testimonianze, ho potuto far un regalo a tanti italiani facendo vedere come il fidanzamento, matrimonio e tutte le situazioni belle e complicate che girano intorno a questi due impegni, se vissuti in chiave di Fede, possono cambiare il cuore di ognuno.
Tra i vari personaggi noti, ne ho potuti intervistare solo alcuni...ma, recentemente, per vari motivi che mi si presentano, sto prendendo contatti con tanti altri personaggi di spettacolo: Lorella Cuccarini, Beatrice Fazi, Gennaro Nunziante...e sono persone molto ricche di storie di fede significative.
Ad esempio, oggi voglio farvi vedere come dietro le quinte dei film di Zalone c’è un uomo che in pochi conoscono. Ma in realtà è la mente dello straordinario successo.
Come in molti sapranno il nuovo film di Checco Zalone“Quo vado?”, ha battuto ogni record di incasso al botteghino. Se l’interpretazione del comico pugliese è ben nota a tutti, la figura dell’autore e regista del film è tutt’altro che conosciuta: e parlo di Gennaro Nunziante.
Ho avuto modo di conoscerlo la prima volta di persona quando lavoravo al Fiuggi Family Festival nel 2011 e poi successivamente in un incontro (nel 2013) che ho organizzato con amici dell'Associazione Cogito et Volo, dove tra i relatori era presente lui, lo scrittore D'Avenia e Costanza Miriano.
Mi accorgo in questi giorni che Nunziante si racconta al settimanale Credere (20 gennaio) e narra del suo incontro con la fede. «Da giovane ho frequentato un oratorio salesiano: qui ho conosciuto un prete che mi ha fatto leggere alcuni libri di cinema e portato a vedere dei film. Però la fede non è arrivata in quegli anni: all’epoca la mia era più che altro partecipazione a dei rituali. La conversione vera è arrivata in età adulta, attraverso un percorso di grande dolore: mi sono reso conto che volevo avere tutto ma che, al contempo, tutto era niente. Iniziai a percepire dentro di me un’inquietudine a cui non sapevo dare risposta».
Poi, Nunziante prosegue dicendo: «di colpo ho cominciato a intuire cosa mi ero perso per strada. Il mio è stato un percorso molto semplice basato, più che sulla meditazione di testi teologici, sull’osservazione della vita alla luce della fede. Ho iniziato così a fare un lavoro dentro di me, stando però molto attento a un concetto: spesso noi cattolici commettiamo l’errore di vantare una maggiore conoscenza presunta della vita. Una superiorità che sinceramente non so nemmeno dove sia di casa: io mi sento un ipocrita che si alza la mattina e chiede pietà di sé al Signore per la pochezza d’uomo che sono».
DOLORE CHE SI CHIUDE BENE
Come in molti sapranno il nuovo film di Checco Zalone“Quo vado?”, ha battuto ogni record di incasso al botteghino. Se l’interpretazione del comico pugliese è ben nota a tutti, la figura dell’autore e regista del film è tutt’altro che conosciuta: e parlo di Gennaro Nunziante.
Ho avuto modo di conoscerlo la prima volta di persona quando lavoravo al Fiuggi Family Festival nel 2011 e poi successivamente in un incontro (nel 2013) che ho organizzato con amici dell'Associazione Cogito et Volo, dove tra i relatori era presente lui, lo scrittore D'Avenia e Costanza Miriano.
Mi accorgo in questi giorni che Nunziante si racconta al settimanale Credere (20 gennaio) e narra del suo incontro con la fede. «Da giovane ho frequentato un oratorio salesiano: qui ho conosciuto un prete che mi ha fatto leggere alcuni libri di cinema e portato a vedere dei film. Però la fede non è arrivata in quegli anni: all’epoca la mia era più che altro partecipazione a dei rituali. La conversione vera è arrivata in età adulta, attraverso un percorso di grande dolore: mi sono reso conto che volevo avere tutto ma che, al contempo, tutto era niente. Iniziai a percepire dentro di me un’inquietudine a cui non sapevo dare risposta».
Poi, Nunziante prosegue dicendo: «di colpo ho cominciato a intuire cosa mi ero perso per strada. Il mio è stato un percorso molto semplice basato, più che sulla meditazione di testi teologici, sull’osservazione della vita alla luce della fede. Ho iniziato così a fare un lavoro dentro di me, stando però molto attento a un concetto: spesso noi cattolici commettiamo l’errore di vantare una maggiore conoscenza presunta della vita. Una superiorità che sinceramente non so nemmeno dove sia di casa: io mi sento un ipocrita che si alza la mattina e chiede pietà di sé al Signore per la pochezza d’uomo che sono».
DOLORE CHE SI CHIUDE BENE
«Preferisco accanirmi su di me e raccontare le mie falsità, anche perché conosco molto meglio le mie ipocrisie, che non quelle degli altri. Per anni un certo cinema pseudo autoriale ci ha raccontato storie di amarezza e aridità. Io provengo da una famiglia povera e ho conosciuto il mondo dell’amarezza ma le assicuro che il finale è lieto perché il dolore ti segnala che devi cambiare qualcosa nella tua vita».
E...POI...
Un finale lieto che ispira anche i film che scrive. «E’ lieto perché lo scopo della nostra vita è la gioia. Io stesso, a distanza di anni, mi sono ritrovato a rivalutare alcuni episodi terribili della mia vita, perché mi sono accorto che erano dei campanelli di allarme necessari perché io poi potessi gioire. Questo, peraltro, dimostra come l’uomo abbia un senso molto grossolano (per non dire errato) di ciò che è male e di ciò che è bene. Eppure proprio questa nullità dell’uomo, questo suo essere niente, è rivelazione di Dio e il cinema dovrebbe avere l’umiltà di inchinarsi davanti alla pochezza umana. Quanto al finale di una storia, lo vivo come un crocevia dove devo scegliere tra un’aggressione finale a un uomo oppure un abbraccio, all’insegna del “possiamo migliorare e cambiare insieme”».
Il regista (che tra l'altro è attore in un famoso film "Casomai") sceglie sempre questa seconda strada «perché è così che sono stato accolto quando sbagliavo: pur facendomi notare l’errore, qualcuno mi ha sempre teso una mano e aiutato ad andare avanti. E in fondo è questo il grande richiamo di Papa Francesco quando parla della Chiesa come un ospedale da campo. So di non avere l’appeal del cineasta impegnato, ma non mi interessa perché non mi rappresenterebbe. Io sono figlio di una comunità fatta di amici, solidarietà e accoglienza: così sono cresciuto e così considero la vita, e pazienza se qualcuno mi taccerà di buonismo».
E...POI...
Un finale lieto che ispira anche i film che scrive. «E’ lieto perché lo scopo della nostra vita è la gioia. Io stesso, a distanza di anni, mi sono ritrovato a rivalutare alcuni episodi terribili della mia vita, perché mi sono accorto che erano dei campanelli di allarme necessari perché io poi potessi gioire. Questo, peraltro, dimostra come l’uomo abbia un senso molto grossolano (per non dire errato) di ciò che è male e di ciò che è bene. Eppure proprio questa nullità dell’uomo, questo suo essere niente, è rivelazione di Dio e il cinema dovrebbe avere l’umiltà di inchinarsi davanti alla pochezza umana. Quanto al finale di una storia, lo vivo come un crocevia dove devo scegliere tra un’aggressione finale a un uomo oppure un abbraccio, all’insegna del “possiamo migliorare e cambiare insieme”».
Il regista (che tra l'altro è attore in un famoso film "Casomai") sceglie sempre questa seconda strada «perché è così che sono stato accolto quando sbagliavo: pur facendomi notare l’errore, qualcuno mi ha sempre teso una mano e aiutato ad andare avanti. E in fondo è questo il grande richiamo di Papa Francesco quando parla della Chiesa come un ospedale da campo. So di non avere l’appeal del cineasta impegnato, ma non mi interessa perché non mi rappresenterebbe. Io sono figlio di una comunità fatta di amici, solidarietà e accoglienza: così sono cresciuto e così considero la vita, e pazienza se qualcuno mi taccerà di buonismo».
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