A tutti i giovani: quando l'anima è pronta, allora le cose sono pronte. Emozioni e talenti fanno dell'essere umano una persona

L'altro giorno abbiamo tenuto al Centro Culturale ELIS un corso di orientamento allo studio e all'università e al lavoro.
Una buona partecipazione, circa 40 ragazzi e ragazze. Molti di loro (un'altra buona percentuale è determinata) sono più preoccupati di fallire, accomunati dall'idea che in Italia non si trova lavoro...
Inoltre, tali sono le pressioni dell’ideologia stritolante del successo come riconoscimento della folla, che la paura finisce con l’offuscare la chiarezza della loro vocazione professionale che si è mostrata almeno parzialmente nel corso di 13 anni di scuola, i più importanti in questo senso. 
Ragazzi, ricordate sempre che il successo non è negli occhi degli altri, ma nell’essere se stessi.

La scuola spesso allena a superare prove e non alla vita, a cui ci si allena solo con una progressiva conoscenza di se stessi (limiti e talenti) e scelte conseguenti. 
Shakespeare scriveva che “quando l’anima è pronta, allora le cose sono pronte”. La paura di ragazzi che non riescono a scegliere è frutto di un’anima che si sta ancora cercando, molti invece sono più sicuri della scelta e ne hanno sì paura, ma proprio perché è la sfida nuova della loro vita: riuscirò a realizzare il mio talento? L’anima è pronta, le cose a poco a poco, con sacrificio e passione, lo diventeranno.

Vorrei allora riferirmi ad una parabola spesso dimenticata: “Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolare la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo dicendo: “Quest’uomo ha cominciato a costruire e non ha potuto finire”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non si siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene contro con ventimila? Se no, mentre quello è ancora lontano, gli manda un’ambasciata per chiedergli le condizioni di pace” (Lc 14 28-32).

Mi è sempre piaciuta questa doppia parabola perché non fa sconti. Cristo sta parlando delle caratteristiche di chi vuole seguirlo, quindi proprio di un discorso “vocazionale”: chi vuole intraprendere qualcosa di grande, unico, nuovo, non può improvvisare. Sono fermamente convinto che per laici che vivono in mezzo al mondo, la strada per realizzare la propria vita è quella di vivere in pienezza la propria vocazione professionale, cioè il fiorire dei talenti, lettere di un alfabeto divino nell’umano, che gradualmente impariamo ad usare.
Egli pone Adamo nel giardino perché “lo coltivi e custodisca” prima del peccato originale. Il modo di stare nel creato per l’uomo è coltivare e custodire il giardino: sviluppare le potenzialità intrinseche alle cose ma non ancora espresse (coltivare) e proteggere quel compimento (custodire). Proprio a partire da quel pezzo di mondo possiamo dialogare con Dio e fare intravedere agli altri la bellezza di questo dialogo nel quotidiano. Nella Genesi infatti si dice che Dio passeggiava con l’uomo nel giardino alla brezza della sera: quel giardino che l’uomo lavorava e custodiva.
Per questo credo sia così importante che un ragazzo trovi il suo pezzo di giardino da coltivare e
custodire. Ma per far questo Cristo dice chiaro e tondo che bisogna sedersi a considerare mezzi a disposizione, fare calcoli e prendere decisioni: altrimenti saremo degni delle risate altrui (torre incompiuta) o sconfitti (guerra persa). Nella fede come nella vita è interpellato tutto l’umano: non possiamo improvvisare, basarci su emozioni passeggere: le emozioni vanno assecondate e...chiamate con un nome e un cognome, distinguerle e...sviluppare questa sfera dicendo ciò che si prova condividendolo con chi si ha vicino tra amici, parenti ecc ecc. E...siate capaci di dare un abbraccio ad un vostro amico! Ringraziate! Queste sono tutte forme di emozioni senza le quali manca un pezzo di noi, ed entriamo in crisi.
Non possiamo nemmeno obbedire ad assurdi copioni culturali per le scelte professionali. Ne va dei nostri talenti e quindi del nostro stesso dialogo con Dio, che si sostanzia di quei talenti. Mi fa sorridere quando qualche ragazzo mi dice che Dio non parla, non dice niente. Io rispondo: parla anche troppo, nel quotidiano. Attraverso un libro, le parole di un amico o di un passante, ma soprattutto attraverso i nostri desideri, le nostre idee, i nostri limiti, i nostri talenti. Ecco perchè anche l'importanza delle emozioni! 
Un cristianesimo fatto di cose straordinarie rischia di essere vuoto, disadattato rispetto alla storia, bigotto. Nell’ordinario di Dio ce n’è persino troppo. Basta avere i sensi aperti.

Il nostro Paese, che ha contenuti da fare invidia a tutti, dovrebbe provare a prendere il meglio del modello orientale (altissimo prestigio sociale dell’insegnante e conseguente stipendio, coinvolgimento frequente della famiglia nell’attività scolastica senza badare al censo, didattica impegnativa ed efficace) e di quello americano (metodo induttivo, lezioni partecipative, coinvolgimento della sfera corporea, possibilità di scelta di percorsi adeguati ai talenti personali).

Che cosa è questo talento, tanto in voga oggi grazie al seguito planetario dei “talent show” che lo riducono a quei 15 minuti di visibilità di cui parlava Warhol, confondendolo quindi con il successo di pubblico?

Penso che dopo 13 anni di scuola si può dire sicuramente che un vostro talento è il modo di stare al mondo.
Eh si, il talento è la forza di gravità che porta un uomo e una donna ad occupare il proprio posto nel mondo, perché è il suo modo unico e irripetibile di relazionarsi con il mondo (il creato, gli altri, Dio).

Un mio amico architetto mi ha spiegato qualche giorno fa che il suo “talento” è nato dal fatto che, avendo perso il padre da bambino ed essendo il maggiore, ha dovuto risolvere mansioni spesso paterne in famiglia. Che c’entra con l’architettura? Una delle prime cose che gli capitò di dover risolvere ancora dodicenne fu un trasloco e toccò a lui ricostruire in pianta la nuova casa e collocare i mobili della vecchia, così da capire cosa portare, dove collocare ogni pezzo. Una mancanza lo ha reso creativo.

Il talento è un insieme complesso di caratteristiche maturate durante l’infanzia (soprattutto) e l’adolescenza (il loro emergere), frutto di predisposizione naturale e di fattori ambientali, che non si ripetono mai due volte, neanche in due gemelli.

L’esempio del mio amico mostra che la privazione genera creatività. Si sa che il bambino privato di qualcosa è costretto a mettere in atto la sua immaginazione per risolvere il dolore. Se un bambino chiede un secondo gelato e i genitori pur di non sentirne i capricci glielo comprano non solo lo viziano, ma gli tarpano le ali. Chi ha tutto non comincia mai la ricerca, perché non mette in moto l’immaginazione, la creatività, la sua relazione con il mondo a partire dalle proprie risorse interiori. Se i genitori resistono il bambino dovrà trovare altro per occupare il suo “bisogno” e lenire il dolore, magari sarà un gioco inventato sul momento: un mazzo di chiavi che diventa una sorta di amuleto, un bastone che diventa una spada. I bambini che hanno tutto e hanno tutto il tempo pieno, che non si annoiano mai. E lo stesso vale per i ragazzi rimpinzati di oggetti e tempi pieni. Quelli che non si annoiano mai, sono fregati: il loro processo creativo, cioè lo scavare e scovare le risorse dentro di sé e non fuori, per evitare il vuoto e il nulla, rimane bloccato.

Lasciate che i bambini vengano a me”, indica la necessità di essere bambini per accedere a Dio. Solo il bambino che è in noi può accedere, perché suo è il regno dei cieli, cioè il luogo in cui la chiamata di Dio, con i talenti ricevuti, è evidente. Purtroppo poi gli uomini a cui è affidato il talento di altri possono rovinarlo, schiacciarlo, distruggerlo, standardizzarlo.

Chiedo ai miei ragazzi in crisi di futuro di stilare una lista di “10 cose che amano fare” e di “10 cose che sanno fare”. Se qualcosa tra le due liste coincide ecco emergere il talento. Si può amare ballare ma essere scoordinati: non si ha talento. Si può saper ballare ma non amare farlo: non si ha talento. La scrittrice Flannery O’Connor a chi le chiedeva perché scriveva racconti rispondeva: “Perché mi riesce bene”. E amava farlo più di ogni altra cosa.

Una volta trovato il talento si tratta di chiedersi: chi può aiutarmi a coltivarlo? Qual è il posto migliore per coltivarlo? Maestri e luoghi: andare a bottega.

Commenti