L’individualismo porta a inseguire il proprio benessere, divide le persone e crea ferite. Per dare dignità al proprio passaggio in questa vita, bisogna giocare di squadra. Nel biliardino nessun giocatore guarda mai in faccia il proprio compagno di squadra... Tutti sono schierati, ma ognuno gioca per sé. Invece quando si vive veramente la vita, la partita si gioca sul campo. Ogni giocatore è protagonista, ha un ruolo definito e chiaro: portiere, difensore, centrocampista, attaccante... ciascun ruolo dipende da ciò che il calciatore sa fare per la squadra e l’efficacia della squadra dipende dall’unità dei giocatori e dal gioco di gruppo.
Questo scrivevo nel mio ultimo libro Parlami Forte (e che ho riportato anche nell' app VitaminaV).
La vita acquista energia e raggiunge la sua bellezza grazie alle relazioni in cui è immersa nel tempo. Confronto, interesse per il prossimo, condivisione...
Questo scrivevo nel mio ultimo libro Parlami Forte (e che ho riportato anche nell' app VitaminaV).
Solo una cultura della persona (e non quella del risultato) può liberare dall'individualismo e portare a compiersi. Ci troviamo in un contesto in cui si vale solo per ciò che si performa, per l'efficacia...
Il cristianesimo, ridotto oggi a pratica esangue o sentimentalismo privato, aveva donato qualcosa di assolutamente nuovo e vitale al mondo antico: la persona (D'Avenia). Infatti Cristo è il Figlio del Padre, la sua identità divina non è individuale ma relazionale, è un figlio: la condizione umana trova pienezza e compimento nel ricevere la vita, non nel «procurarsela», nell’accoglierla, non nel «produrla». Un figlio amato non ha paura di vivere, anche quando è debole, fallisce o cade, perché riceve tutto dal padre che dà la vita: «Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» dice infatti Cristo. L’individuo invece ha paura, perché è un orfano, solo contro tutti deve lottare per essere accettato e potersi poi accettare.
Prendendoci cura della persona ci inseriamo (e inseriamo gli altri) in una miniera di relazioni sane che pian piano formano un diamante. Il principio personale mette l’io al centro di relazioni che assegnano identità, mentre quello del risultato spinge a soddisfare gli obiettivi. LA nostra cultura in questi anni è andata avanti con: funziona, concorri, realizzati… anziché ti voglio bene così come sei, vai bene anche quando non funzioni.
Il cristianesimo, ridotto oggi a pratica esangue o sentimentalismo privato, aveva donato qualcosa di assolutamente nuovo e vitale al mondo antico: la persona (D'Avenia). Infatti Cristo è il Figlio del Padre, la sua identità divina non è individuale ma relazionale, è un figlio: la condizione umana trova pienezza e compimento nel ricevere la vita, non nel «procurarsela», nell’accoglierla, non nel «produrla». Un figlio amato non ha paura di vivere, anche quando è debole, fallisce o cade, perché riceve tutto dal padre che dà la vita: «Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» dice infatti Cristo. L’individuo invece ha paura, perché è un orfano, solo contro tutti deve lottare per essere accettato e potersi poi accettare.
L’io, grazie alle relazioni sane, è donato al mondo: quindi dalla qualità di queste relazioni nel tempo dipende il suo fiorire. Se però esse sono improntate solo al risultato l’io si sente sempre inadeguato e insoddisfatto, perché è voluto bene solo se all’altezza.
La bellezza ha il potere di ispirare e trasformare. La bellezza chiama e sperimentiamo questo appello ogni giorno: il cielo pulito dal vento in una tersa giornata di ottobre, la pagina di un libro che ci ha cambiato la vita, l’amicizia di qualcuno che ci ha salvato la vita... La multiforme bellezza si svela e si vela continuamente e nel farlo chiama il nostro cuore a uscire fuori, trafitto dalla metaforica freccia... Ma siamo capaci di lasciarci trafiggere, di cogliere questi richiami e di rispondere all’appello? Non è cosa da poco. Ne va della nostra felicità.
La logica del risultato come senso ha un esito tragico sulle vite, o si lotta fino a sfinirsi o ci si ritira, già sfiniti.
La logica del risultato come senso ha un esito tragico sulle vite, o si lotta fino a sfinirsi o ci si ritira, già sfiniti.
In politica il consenso elettorale prevale sull’azione per facilitare la vita e l’iniziativa dei cittadini. Nell’informazione si distorce la verità per manipolare l’opinione pubblica e ottenere click. Nel caotico contesto scolastico ci si preoccupa di tante burocrazie inutili che far fiorire i ragazzi nella loro unicità. Ossessionati in tutto dai risultati sentiamo un angoscioso e ingiustificato senso di inadeguatezza alla vita.
Siamo il paese con meno figli: fare figli è in assoluto l’atto più creativo e aperto al prossimo. Mai come con un figlio l’uomo mette nel mondo qualcosa di vitale e concreto, e mai come con un figlio può riscoprire tutta la bellezza e la pienezza della vita con la sua ricchezza. Un figlio è davvero un inedito. Solo riscoprire questa gioia pienamente creativa del generare e diffonderne il contagio potrà permettere alla nostra società di uscire dalla tristezza di un mondo senza più figli, di un mondo iperconnesso ma sempre più solo.
Sta a noi ora invertire la rotta.
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