Non solo bordelli. Consulenti schiavizzati e svuotati di futuro

L'etica del lavoro è un tema centrale nella Dottrina Sociale della Chiesa, la quale offre una visione integrale e umanistica del lavoro, considerandolo non solo come mezzo di sostentamento ma come elemento fondamentale per la realizzazione dell'uomo. In questo articolo esploreremo le principali prospettive offerte dalla Chiesa e approfondiremo il contributo di autori contemporanei come Giovanni Paolo II, Alessandro D'Avenia, Alberto Pellai e Paolo Crepet, i quali, sebbene con approcci diversi, forniscono riflessioni rilevanti sul tema.

Il Lavoro nella Dottrina Sociale della Chiesa

La Dottrina Sociale della Chiesa sottolinea il valore intrinseco del lavoro umano, considerandolo come partecipazione all'opera creatrice di Dio. Il lavoro, secondo la Chiesa, non deve essere visto solo come un mezzo per guadagnarsi da vivere, ma come un'attività che contribuisce allo sviluppo personale e comunitario.

L'enciclica Laborem Exercens di Giovanni Paolo II rappresenta uno dei testi fondamentali su questo tema. Il Papa afferma che il lavoro è una dimensione essenziale della condizione umana e che attraverso di esso l'uomo realizza se stesso e contribuisce al bene comune. Inoltre, la Chiesa pone una forte enfasi sulla dignità del lavoratore e sulla necessità di condizioni di lavoro giuste ed eque.

I nostri giovani

Il lavoro può essere un'espressione del proprio talento e della propria passione, un modo per realizzare il proprio potenziale e contribuire alla società. Insegnamo ai giovani che il lavoro non solo è un obbligo, ma un'opportunità per scoprire se stessi e il proprio ruolo nel mondo.

Aiutimo  i ragazzi al valore del lavoro, non solo come mezzo di guadagno, ma come modo per contribuire al bene comune e sviluppare competenze personali e sociali.  Il lavoro va visto essere visto come un'opportunità di crescita e realizzazione, piuttosto che come una semplice necessità economica.

Paolo Crepet, noto psichiatra e sociologo, ha spesso parlato del lavoro in relazione alla salute mentale e al benessere personale. Crepet evidenzia come il lavoro possa essere fonte di stress e alienazione, ma anche di grande soddisfazione e autorealizzazione. Nel suo libro "Impara a essere felice", Crepet esplora il concetto di felicità legato al lavoro, sostenendo che trovare un equilibrio tra vita lavorativa e personale è essenziale per il benessere complessivo. Crepet invita a riflettere sul significato del lavoro nella propria vita e a cercare un'occupazione che sia in sintonia con i propri valori e interessi.

L'etica del lavoro, come delineata dalla Dottrina Sociale della Chiesa, enfatizza la dignità e il valore del lavoro umano, vedendolo come un mezzo per la realizzazione personale e il contributo al bene comune. Autori contemporanei come Alessandro D'Avenia, Alberto Pellai e Paolo Crepet arricchiscono questa prospettiva con riflessioni sulla vocazione personale, l'educazione dei giovani e il benessere mentale. In un'epoca in cui il lavoro è spesso visto solo in termini economici, queste visioni offrono un importante richiamo a considerare il lavoro come un'opportunità di crescita, realizzazione e servizio alla comunità.

Dignità umana

Per chi conosce la Dottrina Sociale della Chiesa, esiste il concetto di "strutture di peccato" (per esempio, ne parla il Catechismo al punto 1869 https://lnkd.in/dCjyf4Gq)

Contrariamente a quel che si pensa, con tale locuzione non si fa riferimento solo ai bordelli o ad ambienti simili.

Ecco, l'esperienza di questi mesi da parte di alcuni amici in grandi studi e aziende internazionali mi induce a riflettere.

Si tratta di ambienti che pretendono abnegazione totale e sottomissione assoluta.

Che non chiedono che si sappia lavorare (o solo in parte), ma che si lavori molto.

Che inducono sensi di colpa in chi abbia una propria vita personale.

Che esigono reperibilità h24 - 7/7.

Nelle quali spesso si cazzeggia per ore, salva la solita impennata dalle 18.00 in poi.

In cui ogni lavoro deve essere consegnato alle 05.00 di mattina, facendo sistematicamente le notti, altrimenti chi credi di essere?

Il tutto per che cosa? Non parliamo di chirurghi in sala operatoria né di astronauti in missione, ma di

neolaureati consulenti o contabili o praticanti avvocati cui si insegna a lavorare così fin da piccoli: senza saper organizzare i tempi, senza rispetto per gli altri, senza rispetto per sé stessi.

Non sto difendendo i lavativi, ma sto perorando la causa di chi non ha la forza di opporsi al "si è sempre fatto così", di chi non ha la possibilità di emergere col proprio talento, di chi è obbligato a sottostare ai capricci di superiori frustrati e, spesso, umanamente falliti.

Poi ci lamentiamo che i giovani non crescono: ma ritengo che un superiore, un Capo vero, debba insegnare ad avere anche una vita propria. A divertirsi. A diversificare. A farsi una famiglia. Ad avere amici. Ad andare al cinema. Rendendosi conto che, con una vita piena, si lavora meglio.

Forse, alcuni di questi mega-studi sono delle vere strutture di peccato, che "rapiscono" i dipendenti per anni, per svuotarli di aspirazioni, di ricchezza umana, di orizzonti culturali, di ambizioni famigliari.

Alla fine, forse, sono strutture di peccato più dei bordelli.

Il lavoro umano è la vocazione dell’uomo ricevuta da Dio alla fine della creazione dell’universo. E il lavoro è quello che che rende l’uomo simile a Dio, perché con il lavoro l’uomo è creatore, è capace di creare, di creare tante cose, anche creare una famiglia per andare avanti. L’uomo è un creatore e crea con il lavoro. Questa è la vocazione. E dice la Bibbia che “Dio vide quanto aveva fatto ed ecco, era cosa molto buona”. Cioè, il lavoro ha dentro di sé una bontà e crea l’armonia delle cose, bellezza, bontà, e coinvolge l’uomo in tutto: nel suo pensiero, nel suo agire, tutto. L’uomo è coinvolto nel lavorare. È la prima vocazione dell’uomo: lavorare. E questo dà dignità all’uomo. La dignità che lo fa assomigliare a Dio. La dignità del lavoro.

Il prestigio professionale di un cristiano non consiste necessariamente nel successo. È vero che il successo umano è quasi una luce che attrae gli altri; ma se quando si avvicinano a colui che ha successo, non trovano un cristiano, un uomo di cuore umile e innamorato di Dio, ma piuttosto il presuntuoso pieno di sé, allora succede ciò che descrive un punto di Cammino: Da lontano attrai: hai luce. Da vicino, respingi: ti manca calore. Che pena!

Il lavoro umano: la trascendenza della persona come dominio sulla natura materiale

Sappiamo come la finalità della creazione è la gloria a Dio, così tutte le creature, in modo particolare l’uomo, sono ordinate ad essa. Tutte le creature devono mettere in risalto la gloria di Dio perché ciò corrisponde alla loro verità più profonda, è il presupposto della loro esistenza. La felicità dell’uomo consiste proprio nella ricerca della gloria di Dio che coincide con la sua volontà divina. Dare gloria a Dio significa accogliere ogni cosa secondo la loro natura come dono autentico dell’amore di Dio attraverso il quale si manifesta la sua volontà. Ecco allora che l’uomo rende gloria a Dio coinvolgendo in sé il mondo materiale e guidandolo alla sua pienezza. Il rapporto che l’uomo ha con il creato deve essere inteso come la cooperazione che l’uomo ha con Dio per portare a lui tutte le cose.

A tal riguardo è interessante notare come il termine “lavorare”, in aramaico “abad”, può essere tradotto anche con “dare culto a Dio”. In effetti l’uomo, quando realizza il comando divino di lavorare e custodire il creato, compie la volontà divina e glorifica il Creatore.

L’uomo infatti, quando coltiva la terra col lavoro della sue braccia o con l’aiuto della tecnica, affinché essa produca frutto e diventi una dimora degna dell’universale famiglia umana, e quando partecipa consapevolmente alla vita dei gruppi sociali, attua il disegno di Dio, manifestato all’inizio dei tempi, di assoggettare la terra e di perfezionare la creazione, e coltiva se stesso; nello stesso tempo mette in pratica il grande comandamento di Cristo di prodigarsi al servizio dei fratelli.
(Gaudium et spes, 57).

L’incarico di governare la terra diventa così un compito etico con il quale ogni singolo uomo e tutta l’umanità rispondono alla vocazione originaria voluta dal Creatore. Scaturisce da qui la necessità di una teologia del lavoro, un “lavoro umano” inteso come un incarico divino di essere signori del creato.

Seguendo la Lettera Enciclica Laborem exercens di Giovanni Paolo II, è possibile riconoscere all’interno del lavoro un duplice senso: un senso oggettivo ed un senso soggettivo. Il senso oggettivo del lavoro consiste nell’universalità e nella molteplicità dei processi umani di soggiogare la terra. Oggi, attraverso lo sviluppo della tecnica e della ricerca, il lavoro umano non è più un lavoro manuale, ma questo progresso che indubbiamente diminuisce la fatica, non esclude la dimensione intrinsecamente umana di tale attività.
Il senso soggettivo del lavoro invece afferma che l’uomo è il soggetto, il protagonista del lavoro, colui che ha il primato. Attraverso le varie attività lavorative, l’uomo non solo esprime le sue capacità creative, ma nello stesso tempo realizza se stesso. Mediante il lavoro l’uomo compie  la sua vocazione ad essere persona, che gli è propria a motivo della stessa umanità (Laborem exercens),
Ecco allora che la dignità del lavoro non può essere ricercata nel tipo di attività da compiere, come nell’epoca antica dove il lavoro manuale era considerato degno degli schiavi, ma piuttosto nel fatto che chi la compie è una persona: « Le fonti della dignità del lavoro si devono cercare non nella sua dimensione oggettiva, ma nella sua dimensione soggettiva » (Laborem exercens, 6). Da quanto detto si può comprendere come pur considerando la dimensione oggettiva e quella soggettiva come due espressioni del lavoro come dominio dell’uomo sul creato, la dimensione soggettiva ha sempre una preminenza perché il primo valore fondamentale dell’attività lavorativa è sempre l’uomo. Questo significa che pur riconoscendo ad alcune attività una maggiore o minore rilevanza sociale oggettiva, l’aspetto determinante da tenere in considerazione è che il fine del lavoro, lo scopo principale di tale attività è sempre l’uomo: « Ne segue un’importante conclusione di natura etica: per quanto sia una verità che l’uomo è destinato ed è chiamato al lavoro, però prima di tutto il lavoro è “per l’uomo”, e non l’uomo “per il lavoro” » . (Laborem exercens, 6).

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