Milano è la città che non si ferma mai. Gente che va, gente che viene, tra uffici di vetro e locali alla moda. Il business pulsa di giorno, la movida domina di notte. E in questa corsa continua, si è costruita un’immagine elitaria: la “Milano da bere” è glamour, è aperitivi esclusivi, è selezione all’ingresso.
Ma questa esclusività ha un costo: il divario sociale si allarga. Non è solo una questione di lusso o di status, è una barriera concreta che spinge molte famiglie ad andarsene. Milano non è più per tutti. Chi “non ci sta”, chi non può reggere il peso degli affitti inaccessibili, del caro-vita, dell’assenza di spazi a misura di famiglia, è costretto a lasciare la città. E così, lentamente, Milano si svuota di chi non riesce a starci dentro economicamente.
Ma questa patina scintillante crea anche un divario, un senso di appartenenza per pochi e di esclusione per molti. Una discriminazione sottile, che non si limita solo a chi può permettersi certi ambienti, ma che in alcuni casi assume toni ben più inquietanti. Gli ultimi episodi di cronaca svelano che dietro la facciata della Milano scintillante si nascondono dinamiche inquietanti. Quando l’élite si trasforma in un ecosistema chiuso, in cui tutto è concesso a pochi, si alimentano circuiti pericolosi.
Siamo ciò che scegliamo di ricordare e di dimenticare.Milano ha scelto per anni di raccontarsi come la città delle opportunità, del merito, del successo. Ma cosa succede quando il successo diventa un lasciapassare per l’impunità? Quando l’esclusività diventa pretesto per chiudere gli occhi su ciò che accade dietro le quinte?
Forse è ora di riconsiderare cosa significhi davvero essere una città di successo. Perché una Milano che esclude e discrimina non è una Milano migliore.
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