Lo specchio rotto

Dove non c’è verità, non può esserci amore.
— Søren Kierkegaard

Ci sono momenti in cui la vita non ci piace.

Non quella degli altri — la nostra.
Allora iniziamo, senza quasi accorgercene, a costruire un piccolo teatro dove poter recitare una parte più sopportabile. È un mondo privato, fatto di giustificazioni, di ferite mai nominate, di verità piegate perché non ci facciano male. È il mondo di chi non accetta la propria storia, e così finisce per riscriverla, come un romanzo che non regge più la realtà. Ma ogni bugia, anche la più tenera, chiede un prezzo: quello della pace interiore. E la prima moneta con cui paghiamo è la rabbia.

Quando guardi l’abisso, l’abisso guarda dentro di te” diceva Nietzsche.
Quando non riusciamo a fare pace con noi stessi, cerchiamo un colpevole. Spesso lo troviamo tra i più vicini: un genitore, un fratello, un figlio.
È strano come l’amore, quando è ferito, diventi un’arma.
Cominciamo a scaricare sugli altri la tensione che nasce dal non voler guardare le nostre ombre. Ci convinciamo che l’altro “meriti” il nostro giudizio, che la sua vita sia la causa della nostra infelicità. È un modo sottile di non guardarsi dentro. Così la rabbia diventa abitudine, la calunnia diventa linguaggio, la distanza diventa rifugio.
Eppure, ciò che stiamo davvero punendo non è l’altro: è la nostra stessa incapacità di accettare la vita com’è.

Mi torna alla mente la parabola del fariseo e del pubblicano (Luca 18,9-14).
Il primo, in piedi nel tempio, ringrazia Dio di non essere “come gli altri uomini”: ladri, ingiusti, adulteri.
Il secondo, il pubblicano, resta in fondo, batte il petto e dice solo: “Abbi pietà di me peccatore”.
Gesù conclude: “Questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato”. Il fariseo è colui che vive nel suo mondo costruito: un mondo di perfezione apparente, dove l’altro è sempre il problema. Il pubblicano, invece, accetta la propria verità. È povero, ma è vero.
Il primo vive nella negazione, il secondo nella luce.
E la luce, anche se fa male agli occhi, guarisce.

C’è una frase di Papa Francesco che andrebbe scritta sugli specchi di casa: “Il cristiano che parla male di un fratello, uccide il proprio fratello.”

Chi attacca, chi calunnia un parente, chi semina discordia nella famiglia, non segue Cristo ma se stesso.
La fede non è un travestimento morale per giustificare il rancore: è una continua resa alla verità, anche quando brucia.
Per questo il cristiano che usa la lingua per ferire è fuori strada: sta difendendo il proprio orgoglio, non il Vangelo.

Accettare la propria vita non significa arrendersi, ma smettere di combattere contro un’ombra.
Significa guardare le proprie ferite e dire: “Sì, mi hanno fatto male, ma da qui voglio ripartire.”
La realtà, anche quella più dura, è sempre il luogo in cui Dio ci aspetta.
Non nei mondi inventati, non nei giudizi, non nelle accuse: ma nel presente, nudo e imperfetto.

Solo lì — nella verità di ciò che siamo — la grazia può trovare spazio. Accettare la realtà è il primo atto di amore verso Dio.

Commenti