Il dolore, soprattutto quello che nasce dentro ai rapporti — d’amore, d’amicizia o familiari — ha una forza dirompente. È un terremoto che scuote l’anima e può trasformare anche la persona più buona, più calma, più razionale. Davanti alla sofferenza, spesso non reagiamo come vorremmo. Ci chiudiamo, ci difendiamo, e a volte — senza accorgercene — diventiamo duri, rancorosi, perfino cattivi.
Non è cattiveria in senso puro, ma una forma di autodifesa. Quando si soffre, si cerca disperatamente un modo per non sentire troppo. E allora si spinge via ciò che ci fa male, anche se ha un volto familiare. Si alzano muri, si pronunciano parole che feriscono, si attaccano persone che in realtà vorremmo solo abbracciare.
Il rancore nasce così: da un dolore che non trova sfogo, da una delusione che non è stata capita, da un bisogno d’amore che è rimasto inascoltato. E nel tentativo di non sentirci deboli, diventiamo taglienti. Facciamo male, e quel male — per un momento — ci fa sentire forti. Ma è un’illusione: dopo resta solo il vuoto, e spesso anche il rimorso.
È importante riconoscerlo: soffrire non giustifica tutto. Attaccare chi ci vuole bene non ci libera davvero. Ci isola. Le parole dette con rabbia, i silenzi pieni di veleno, i gesti di chiusura… diventano catene. Ci tengono legati al dolore invece di aiutarci a guarire.
La verità è che la vulnerabilità non è una colpa. È umano soffrire, è umano sentirsi delusi, è umano avere paura. Ma la forza vera sta nel non lasciare che il dolore ci indurisca. Sta nel cercare di capire, di comunicare, di restare gentili anche quando tutto dentro grida vendetta.
Perché la cattiveria momentanea può sembrare uno sfogo, ma la gentilezza — anche nel buio — è la sola via per tornare a respirare.
Non è cattiveria in senso puro, ma una forma di autodifesa. Quando si soffre, si cerca disperatamente un modo per non sentire troppo. E allora si spinge via ciò che ci fa male, anche se ha un volto familiare. Si alzano muri, si pronunciano parole che feriscono, si attaccano persone che in realtà vorremmo solo abbracciare.
Il rancore nasce così: da un dolore che non trova sfogo, da una delusione che non è stata capita, da un bisogno d’amore che è rimasto inascoltato. E nel tentativo di non sentirci deboli, diventiamo taglienti. Facciamo male, e quel male — per un momento — ci fa sentire forti. Ma è un’illusione: dopo resta solo il vuoto, e spesso anche il rimorso.
È importante riconoscerlo: soffrire non giustifica tutto. Attaccare chi ci vuole bene non ci libera davvero. Ci isola. Le parole dette con rabbia, i silenzi pieni di veleno, i gesti di chiusura… diventano catene. Ci tengono legati al dolore invece di aiutarci a guarire.
La verità è che la vulnerabilità non è una colpa. È umano soffrire, è umano sentirsi delusi, è umano avere paura. Ma la forza vera sta nel non lasciare che il dolore ci indurisca. Sta nel cercare di capire, di comunicare, di restare gentili anche quando tutto dentro grida vendetta.
Perché la cattiveria momentanea può sembrare uno sfogo, ma la gentilezza — anche nel buio — è la sola via per tornare a respirare.

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